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La funesta docilità

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Questo libro ha una intricata relazione con il racconto giallo, il saggio letterario, e l'«affaire». Ha un inquilino scomodo. Si chiama Alessandro Manzoni. E lo scrittore, ha rilevato Sciascia, «su cui si verificano sconcertanti paradossi, disastrose incongruenze: molto italiano senza gli italiani, molto cattolico senza i cattolici, molto laico senza i laici». Già il titolo del libro è un ossimoro. La «funesta docilità» è una colpa di condiscendenza: l'attitudine a conformare il proprio animo «all'affermare appassionato» della moltitudine. La definizione si trova nei Promessi Sposi. Manzoni l'attaglia a Renzo che, nella Milano della carestia, ha fatto sua l'opinione della massa fanatica che nel vicario di Provvisione ha additato «la cagion principale della fame». L'acquiescenza di Renzo si esaurì però nella partecipazione convinta al tumulto. Cessò di fronte alla «proposta» di «omicidio». Renzo si prodigò per salvare la vita al malcapitato vicario. Senza afflizione, «funestamente docile», risultò invece lo stato d'animo di Manzoni relatore (in una lettera del 1814) dell'assassinio, immotivato e truce, dell'inerme ministro delle finanze del Regno Italico, Giuseppe Prina, così aderendo al clima di una città che si dichiarò priva di «delitti» e che non volle che ci fosse una bara o una tomba da baciare. In una delle sue «inquisizioni», Sciascia tornò su quell'omicidio che risulta opaco nella lettera manzoniana: lettera che «ci inquieta», disse, «e che, in quel momento scritta senza inquietudine, crediamo sia poi diventata sostanza di una inquietudine profonda, drammatica e segreta dell'intera sua vita e dell'opera». Per «amore» di Manzoni, Sciascia si fece investigatore. L'efficienza analitica della sua indagine entrò nelle pieghe più riposte della scrittura dei Promessi Sposi alla ricerca di un «rimorso». Non lo trovò. Il giallo morale viene ora sciolto in questo racconto critico. La soluzione era nascosta nelle illustrazioni che Manzoni «dettò» e controllò, fino a correggerle, per l'edizione definitiva del suo romanzo. Nell'« affaire » si intrecciano le voci di Sciascia, Pomilio, e Natalia Ginzburg, e con esse le letture critiche in forma figurativa di Guttuso, Caruso, e Paladino.
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