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Un'odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio
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A ridosso della Liberazione la magistratura processa centinaia di ex partigiani, accusati di gravi reati commessi durante la lotta clandestina e nell'immediato dopoguerra. Sono perlopiù imputazioni relative a casi di "giustizia sommaria" contro persone sospettate di spionaggio, coinvolte nell'apparato repressivo fascista. Per diverse decine di imputati la strategia difensiva, impostata da Lelio Basso, Umberto Terracini e da altri avvocati di sinistra, punta a mitigare le pene mediante il riconoscimento della seminfermità mentale. Quando poi, dall'estate del 1946, l'amnistia Togliatti apre le porte alla grande massa dei fascisti condannati o in attesa di giudizio, anche i partigiani beneficiano del provvedimento, dal quale è tuttavia esclusa la detenzione manicomiale. Ex partigiani perfettamente sani di mente devono dunque adattarsi alla detenzione in strutture dove gli internati non hanno diritti e sono sottoposti a quotidiane vessazioni. Tornano finalmente alla luce, dai documenti inediti custoditi all'Opg di Aversa, dove i partigiani internati furono aiutati dal giovane attivista comunista Angelo Jacazzi, oscure vicende della lotta di liberazione e della guerra civile, coperte dal velo dell'oblio, e si ripercorrono problematici itinerari individuali dentro le carceri e i manicomi, nell'Italia della Guerra fredda. Quella dei partigiani in manicomio era rimasta una pagina sconosciuta della storia italiana nel secondo dopoguerra, fino a oggi.
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